di Pinuccia Barbieri
In vista del lavoro di rilettura dell’esperienza fin qui fatta dell’Agorà, (prossima riunione del 22 febbraio) ho preparato un report che mancava.
Per Giordana Masotto, che introduce la discussione, raccontare di lavoro in tempi di crisi non basta in quanto si rischia di restare ingabbiate nel proprio vissuto e non prorompere, ci si può sentire isolate anche nella grande rete di connessioni. Dalle precedenti Agorà è emerso che scommettere sulla precarietà non ha portato i risultati sperati anche per chi ha creduto questa condizione come catalizzatrice di lotte negli anni.
Per Giordana serve fare un passo avanti e trovare risposte non individuali a questa condizione, soluzioni creative in cui la consapevolezza possa entrare nella materialità delle pratiche del lavoro aprendo conflitti e facendoci vivere meglio. “E’ necessario trovare insieme orientamenti condivisi, sentirci libere di portare nel lavoro le esigenze della vita e non viceversa”.
E’ importante ragionare su collaborazione e competizione. Giordana definisce la competizione estrema come valore dominante oggi, una moneta circolante con cui si giudica il successo di una persona anche in casi non si condivida questo sistema di valore. Questa competizione peggiora le condizioni di lavoro. Giordana chiede: cosa si rischia a cooperare?
Silvia Motta parte dalla domanda di Lorenza che chiede : interagire è lo stesso di cooperare? Interagire non è la stessa cosa di cooperare, dice, si interagisce per mille motivi. Quello che può cambiare le interazioni sono gli atteggiamenti che possono essere cooperativi o no. La cooperazione richiede la creazione di condizioni adatte per cooperare, tema che ha tante sfaccettature. La cooperazione non è una cosa spontanea, è una conquista.
Racconta la sua esperienza nell’ambito del suo lavoro autonomo di trent’anni nella comunicazione, molto simile alla condizione precarie perché è in proprio. In questo tipo di lavoro c’è competizione che può essere anche immaginaria: ogni persona che fa il tuo stesso lavoro è una/un concorrente ma nello stesso tempo è anche uno stimolo a fare bene e migliorare. Questo tipo di lavoro si gioca sul risultato e sulla valutazione del risultato.
Secondo Silvia è importante collaborare senza aver timore di chiedere, cosa che per lei era difficile. Chiedere si lega a darsi dei riconoscimenti, chiedere è dare valore all’altro e questo riconoscimento è poco diffuso. Oggi si pensa che chi ha svolto bene un lavoro ha fatto solo il suo dovere. Chiedere e rinforzare le situazione collaborative: ad esempio proporsi in due per un lavoro, guadagnando meno ma valorizzando il piacere di lavorare insieme. Sottolinea che non sempre collaborare fa nascere una relazione, questa nasce quando c’è un rapporto di fiducia.
Una partecipante suggerisce che la cooperazione è anche informazione. Una delle più grandi pecche del patriarcato è la scarsità di informazione e racconta che la consapevolezza del suo valore è venuta con il tempo. La partecipante ritiene sia utile creare reti che ci sono già ma alle quali non si accede subito, reti di informazione di base (paga, condizione lavorativa) per essere consapevoli e creare rapporti di solidarietà. Si discute sul fatto che è importante lavorare per essere pagate ma anche per acquisire competenza anche se la competenza e la forza lavoro deve venir pagata.
L’intervento di Luisa Muraro non si sente.
Annamaria Rigoni sostiene che la competizione non è sempre distruttiva ci possono essere due persone alla pari che vogliono raggiungere un obiettivo senza distruggersi e il conflitto può portare a risultati migliori rispetto il punto da cui si parte. La competizione, secondo Annamaria, non è in antitesi con la collaborazione.
Annamaria parla di sensazione di fastidio in certe occasioni quando non può competere, ad esempio nel caso in cui ci siano irregolarità nei concorsi.
Silvia Motta specifica che quando parlava di competizione immaginaria parlava di uno stimolo per crescere e si trattava quindi di una competizione sana.
Lia Cigarini riprende un’idea di Chiara Martucci nella precedente Agorà in cui parlava di codice di autoregolamentazione, vista come una via per uscire dalla drammatica situazione di crisi del lavoro. “Questa sera emerge il tema di promuovere forme di cooperazione. Il mio interrogativo è a quali forme politiche, voi giovani, pensate per arrivare a connettere lavori che per definizione sono individuali, frammentati?”. E’ importante inoltre non confondere la relazione politica trasformativa con una relazione strumentale o superficiale (ad esempio per il solo fatto di essere connesse in rete).
Ma, dice Lia, noi vogliamo modificare radicalmente il lavoro, portando pensiero e pratica delle donne “però di questo noi dobbiamo discutere, perché l’Agorà è uno strumento per allargare la presa di coscienza e scambiarci idee però non può essere un luogo dove si coalizzano quelle della situazione delle precarie” e chiede se la pratica di relazione intesa in senso forte ha qualche possibilità o bisogna fare una mediazione molto più ampia.
Lia fa riferimento al lavoro di Macao che ha molto messo l’accento su determinati lavori cognitivi che, nell’inchiesta di Acta sembrano meno pagati rispetto ai lavori ingegneristici o di consulenza, qualche gesto provocatorio, dice, bisogna farlo.
Chiara Martucci riprende il discorso del codice di autoregolamentazione come una strada da percorrere collettivamente avendo una sorta di dicotomia. Da un lato le istituzioni assenti e lontane, e dall’altro la giungla della mancanza di regolamentazione che porta indebolimento. “Mi interessava lo spostamento simbolico partendo dal primum vivere, rivoluzione copernicana a fronte del primato di economia e lavoro come adesione alla mission, per passare alle pratiche e all’agire, ai codici di autoregolamentazione.”
Si parla quindi di una battaglia culturale, interviene Lia. Chiara risponde che “è una cosa praticabile in questa dicotomia. Sono pratiche sociali diffuse”
Elisabetta dice di aver trovato utile la coalizione con coetanee per aumentare il potere di negoziazione. Racconta di essere una Pi e di avere relazioni molto forti con le donne. La questione che pone è la condivisione di informazione certo ma non solo quello. Importanti è rafforzare le relazione e un lavoro simbolico. La relazione tra precarie e chi gestisce potere è una contaminazione produttiva.
Vita Cosentino ribadisce che serve un lavoro sul simbolico. E’ un lavoro di immaginazione.. più che un codice di autoregolamentazione, se la si vuole chiamare una battaglia culturale che poi è a livello di sociale diffuso. Il lavoro simbolico può spostare.
Una partecipante sostiene che la precarietà è una dinamica poco civile, parla di una precarietà dell’etica. Riferisce poi di una discussione con un gruppo di precarie fiorentine, Corrente Alternate, “Mi sembra che venga affrontata unicamente sul livello orizzontale come fosse una problematica di civilizzazione a livello locale che non coinvolge livello decisionale, non facendosi carico del conflitto da agire a un livello superiore. Questa è un amputazione che deve essere sanata escogitando dei sistemi che trovino delle forme. L’altra cosa che non viene presa in considerazione è che in una società democratica ci sono obblighi che fanno carico allo Stato.
Sul reddito di cittadinanza. La partecipante cita Stefano Rodotà che indica nel reddito di cittidinanza una conseguenza di articoli della costituzione che auspicano una sopravvivenza degna.
Giordana fa notare che emerge la dimensione orizzontale, conflittuale, contrattuale. “Il problema posto non è metterci d’accordo tra di noi per sopravvivere. Se delle persone si mettono insieme è per mettere le basi di una contrattazione. Noi vogliamo ribaltare i paradigmi a partire dalle condizioni minime e imparare a dire quello che si vuole. Partiamo da noi, vivere bene non sopravvivere. Il lavoro si deve confrontare con soggetti che portano esigenze, non si parla di piccole regole cooperativa ma di soggetti che ci possono essere”.
Intervento che non si sente
Il ragazzo di Macao introduce nella discussione il tempo, non quello cronologico ma tempo come possibilità che consente di prendere una decisione. “Avevo voglia di parlare di lavoro in modo diverso non so se questa è cooperazione, e è fare informazione e conoscenza, ma mi sono preso del tempo”.
La questione del tempo riguarda tutti sia precariato sia i lavoro cognitivi.
Il lavoro oggi colonizza le relazioni. Si sta in relazione solo se c’è la possibilità di un lavoro. I desideri che hanno portato alla mobilitazione di Macao erano molto eterogenei e sono riusciti a recuperare tempo da relazioni strumentalizzati.
“Abbiamo usato la parola lavoro e non attività perché il lavoro ha dignità, noi stiamo lavorando anche se la sociologia dice che il lavoro è tale solo se pagato, ma dobbiamo pensare un’altra idea di lavoro”
L’auto-inchiesta ha evidenziato tante persone nel mercato del lavoro, nell’industria creativa e tanta gente sotto la soglia della povertà. “C’è comunque una rivendicazione del senso del produrre. Si mettono insieme persone diverse con guadagni diversi. Anche chi è dentro il mercato ha rigetto verso il senso di quello che produce”.
Una partecipante sostiene che la soggettività che vuole porre un limite al lavoro, rappresenta un passaggio simbolico forte, oltre lo schiacciamento della condizione lavorative precaria. Lo scatto simbolico spinge verso la ricerca di pratiche che consentono di far valere questo varco, il varco simbolico che il soggetto apre quando pone un limite.
Licia racconta la sua esperienza di lavoro dal ‘98 lavoro nel terzo settore. Chi lavora nel terzo settore son persone altamente qualificate e sono donne perché già scelta terzo settore si sa che non si diventa ricche e si è appagate dal lavorare sia in team che in relazione con utenti. Si lavora a progetto e si hanno scadenze quindi si è organizzati e c’è una relazione di collaborazione In questi progetti è molto forte la relazione e le lavoratrici che passano da lavoratrici a progetto al posto da dipendente perdono questa relazione.
Lia Cigarini insiste sulla pratica politica. C’è necessità di difendersi da una situazione economicamente ed esistenzialmente drammatica. La pratica di mettere in parole l’esperienza per una modificazione radicale del linguaggio e in generale nel modo di lavorare. “Vorrei la prossima volta discutessimo di come fare, Vita proponeva di dare più animo e più pensiero e calore alle difese che sono sacrosante”
La pratica di relazione non ha il giusto peso nella parola competizione che è molto finalizzata al prodotto creativo, mettere insieme costi e vantaggi e “sono d’accordo con Elisabetta di lavorare sul linguaggio e sul simbolico senza staccarci da un’azione di difesa”.
Far scoccare una scintilla tra presa di coscienza e soggettività politica. La politica della differenza non significa che le donne sono superiori agli uomini ma che è un’invenzione delle donne ,pratica preziosa per donne e uomini in cui si mette in gioco la soggettività, si parte da sé e si pratica la relazione. Sono d’accordo con la pratica che ha sta facendo Macao dei gesti provocatori.
Una partecipante racconta che da 35 anni fa un lavoro liberato nel senso che ha una pensione minima e si dedica alla politica delle relazioni, con grandi soddisfazioni, a volte qualche piccolo guadagno e tanta ansia da sopravvivenza.
“Auspichiamo un’altra economia e soprattutto le donne per aver tempo liberato stanno creando altri modi per stare fuori dal mercato di sopravvivenza, anche chi aveva lavori pagati bene preferiscono modalità relazionale e presa di coscienza. Il problema è vedere se troviamo nessi tra pratica politica del cambiamento profondo che parte dalla soggettività, tra bisogno di difesa e la questione della vita.
Una partecipante racconta di essere diventata madre e si chiede: “C’è un modo che consente di curare la vita senza passare dal reddito? Io ho bisogno di reddito. C’è qualcosa che posso escogitare per ridurre questo bisogno?”